A place where we belong
Fin da bambina avvicinandosi il Natale cercavo di diventare sempre più cattiva. All’asilo avevo chiesto alla suora chi fosse Babbo Natale: Dio o Gesù da vecchio? Alle elementari avevo messo in scena una recita filosofica nella mangiatoia tra le renne e i cammelli dei Re Magi. “Noi portiamo regali da duemila anni!” “Si, ma sempre con dieci giorni di ritardo”. In terza media avevo distribuito un ciclostilato dal titolo “Bruciamo l’albero di Natale” che finiva così: “un simbolo moderno, consumista, di un seme antichissimo, pagano, impastato con duemila anni di grano duro cristiano: il risultato è indigeribile”.
Anche crescendo, il giorno di Natale ero sempre in tilt. Arrivavo dai parenti alterata, in micro minigonna, dicevo cose sgradevoli e se qualcuno mi sussurrava “almeno a Natale…” gridavo “siete voi che dovreste perdere il controllo e lasciarvi andare, almeno a Natale!”.
Poi venne uno degli anni peggiori. Stavo andando al pranzo di Natale con la mia Panda rossa, guidavo piano sulla neve ascoltando una musicassetta di “canzoni tristi specialmente a Natale” regalo di un’amica. A quel tempo ci si regalava cassette-compilation registrate ad personam. E io purtroppo comprendevo perfettamente cosa dicevano le canzoni in inglese.
Do you know cantata da Diana Ross diceva: “Sai dove stai andando? Ti piace la vita che stai facendo? Dove sono le tue speranze? Lo sai? Ci sono così tanti sogni che ci lasciamo scivolar via tra le mani…”
Don’t give up era un duetto tra Peter Gabriel (“Ho guidato tutta la notte verso casa. Siamo cresciuti così forti, non avrei mai pensato di poter fallire….”) e Kate Bush: “non mollare, siamo così fieri di te, puoi ancora farcela, ti prego non mollare, da qualche parte esiste un posto che è parte di noi”.
Piangendo da sola al volante quasi andavo a finire dritta nel fiume. Arrivata sana e salva per miracolo, avevo trovato sotto l’albero un piccolo libro per me. Il testo di una conferenza tenuta a Berlino da Rudolph Steiner nel 1909 dal titolo “L’albero di Natale”.
“Quando l’inverno è giunto a metà del suo cammino e domina la più grande oscurità, sentiamo di doverci ritirare in profondità sottraendoci allo sguardo esteriore per entrare dentro la terra. Allora condividiamo lo spirito degli antichi, che al culmine dell’inverno come il seme sprofondavano nelle tenebre per conoscere le forze nascoste della nuova vita”.
Un’illuminazione. “Contempla il sole nell’ora di mezzanotte” diceva. Il mio sentirmi pecora nera, introversa e gelida, non era sbagliato. Era il mio modo di prepararmi al Natale.
“E poi penetra la roccia inerte con la forza del seme che cresce e germoglia”. Nell’albero di Natale riconoscevo l’albero della vita. “Trova nelle tenebre il nuovo inizio”. Le lucette rappresentavano i germogli della nuova vita, come avevo fatto a non capirlo prima?
Anche quell’anno ero un po’ brilla, ma abbracciavo tutti, accarezzavo l’albero di Natale e spiegavo a tutti la mia illuminazione. Finalmente mi sentivo anch’io degna del Natale.
Da allora l’albero di Natale è diventato per me un segno di appartenenza, a place where we belong. Oggi le mie nipoti tollerano “le vecchie canzoni tristi” della zia e mi prendono in giro su Simon Le Bon quando cantiamo in coro Do they know it’s Christmas time?
Che diceva cose in apparenza scontate, ma che per me, la ex bambina genio, erano state toccanti: “Non aver paura del Natale, non devi sentirti in colpa, ma soltanto più altruista”.
Testo: Leone Belotti.
Illustrazioni: Alessandra Corti.
Fonti e riferimenti:
L’albero di Natale, conferenza di Rudolph Steiner, Berlino 1909.
Do you know, Diana Ross, 1975.
Don’t give up, Peter Gabriel, 1986.
Do they know it’s Christmas time, Band Aid, 1984.