Ci sono giorni in cui vorrei solo abbracciare gli alberi. L’ippocastano sotto casa mia per primo. Ancora tu, ma non dovevamo vederci più? E come stai, domanda inutile, stai come me, e ci scappa da ridere. Tutta la campagna rinchiusa in un cerchione, vivendo dei veleni del suolo e dell’aria e abbeverandosi dell’orina dei cani. Ogni cinque minuti il tram gli passa sulle radici. Cresce storto, quasi volesse fuggire, c’è da capirlo.
Come gli alberi del minuscolo boschetto che resiste tra il centro commerciale e la tangenziale, guerrieri al crepuscolo di una battaglia millenaria che al passaggio dei tir si sfiorano con le lunghe braccia per assicurarsi che ci sono ancora tutti, come fanno i ciechi.
Sarebbe bello poter arrivare fino alle colline ad abbracciare quei filari di olmi, salici, pioppi, gelsi che accompagnano i fossi, la più commovente campagna che sia mai esistita. E risalire le montagne per sentire i suoni del vento tra gli abeti, che a volte sembrano inni sacri. Ritrovare gli alberi delle divinità dei boschi, l’albero della vita, l’albero della libertà, l’albero solitario che ti salva la vita quando sei assediato dai lupi o trascinato via da un’alluvione. Gli alberi piantati quando nasce un bambino e gli alberi della memoria piantati per ricordare chi è morto combattendo lontano da casa, senza colpa né sepoltura. E vorrei abbracciare di ogni albero la corteccia, che trasporta le informazioni dalle radici alle foglie e si chiama liber, perché una volta staccata, liberata, è divenuta il supporto sul quale abbiamo iniziato a scrivere, prima come tabula cerata e poi come libro, liber, per trasportare tutte quelle informazioni che oggi abbiamo nel tablet.
E i platani dei viali cittadini, che spesso hanno un destino assurdo, si ammalano tutti dopo essere stati potati, e con ciò contagiati da motoseghe infette, proprio come una volta si veniva infettati in sala parto dalle mani e dai bisturi dei medici. Gli alberi della città dovrebbero essere sacri, perché la città stessa nasce tra gli alberi o intorno agli alberi o grazie agli alberi che all’interno della casa comune fanno lo stesso lavoro di ogni pianta d’interni, un lavoro insostituibile, di rigenerazione dell’aria. Andrebbero connessi tra loro i parchi, i giardini, gli orti urbani, i viali e i corsi d’acqua alberati. Nei parchi mettiamo cartelli prolissi e aggressivi con scritto vietato questo, quello e quell’altro e i trasgressori saranno severamente puniti. Con altro stile Massimiliano d’Austria fece scrivere all’ingresso del Castello di Miramare a Trieste “Le piante del parco sono poste sotto la tutela del pubblico”. L’unico albero che tuteliamo davvero è l’albero dei soldi: ha banconote da venti euro al posto delle foglie, diamanti come frutti e attira gli esseri umani ad ammazzarsi tra loro intorno alle sue radici, diventando così un ottimo fertilizzante.
Anche io una volta prendevo in giro i tree hugger, gli abbracciatori di alberi, ma adesso che non posso più abbracciare nessuno ho cambiato idea, e prima di andarmene vorrei abbracciare uno ad uno gli alberi del mio giardino, per prendere commiato dagli amici di una vita, e allora abbraccio alberi e libri, e lettori, ecco, hai appena abbracciato Proust, Primo Levi, Lucio Battisti, Musil, Renard, Braudel, Buzzati, Vonnegut, Saramago, Rodari. Perché abbracciare è partecipare, essere insieme, nessuno può farcela da solo, lo dice il papa, siamo tutti interdipendenti, e lo diceva la filastrocca che cantavamo da bambini:
per fare l’albero ci vuole il seme, per fare il seme ci vuole il frutto,
per fare il frutto ci vuole il fiore, per fare il fiore ci vuole l’albero.
E all’abbraccio si aggiunge Whitman: noi siamo natura, a lungo siamo mancati, ma ora torniamo, diventiamo piante, tronchi, fogliame, radici, corteccia, siamo rocce, siamo querce, cresciamo fianco a fianco. Lasciarti non è possibile. Abbracciami amore mio.
Testo: Leone Belotti.
Illustrazioni: Alessandra Corti.
Fonti e riferimenti:
Giuseppe Barbera, Abbracciare gli alberi, 2017.
Lucio Battisti, Ancora tu, 1976.
Sergio Endrigo e Gianni Rodari, Ci vuole un fiore, 1974.