Una pianta bellissima, un libro difficilissimo, una storia esemplare.
La pianta si chiama Bucida Buceras, è slanciata, flessuosa ed elegante, arrivando mediamente ad un’altezza di 4-5 metri. Originaria delle foreste tropicali del Golfo del Messico, deve il suo nome, che letteralmente significa “corno di bue” (dal greco Boûs, bue, e Kéras, corno) alla forma sdoppiata e incurvata che assumono le cime in fase di fioritura.
Il libro è notissimo, citatissimo e praticamente illeggibile: si intitola “Essere e tempo”, è l’opera definitiva di Martin Heidegger, il filosofo-curatore che ha saputo rigenerare nel 900 le radici millenarie dell’idealismo di Platone innestandosi sulle ramificazioni più recenti, curate dai suoi predecessori Hegel e Husserl, per sviluppare una nuova fioritura, una filosofia dell’esistenza meglio nota come esistenzialismo. Da alcune settimane teniamo una copia di “Essere e tempo” aperta sul piccolo tavolino relax nella zona rianimazione della serra, dove ci prendiamo cura delle piante in sofferenza, come la Bucida di questa storia.
Al pari delle sue sorelle e antenate, è una pianta molto forte e piena di risorse. Tollera la luce, il sale, gli insetti, i funghi, il vento e perfino l’inquinamento. Le sue radici sono in grado di spaccare la pietra. Nel corso dei secoli è stata utilizzata in mille modi, il suo legno è servito per costruire galeoni e brigantini nell’epoca della navigazione a vela e la sua corteccia ricca di tannino si è rivelata una miniera per la creazione di prodotti abbronzanti.
Oggi è una star del green design, richiesta come una top-model dai brand del settore luxury per i loro head-quarter e showroom. Grande visibilità (e un certo scalpore) ha suscitato il cosiddetto “bosco volante”, un’installazione realizzata per “richiamare l’attenzione sull’ambiente”, costituita da 5 Bucida “sospese” nel vuoto in modo un po’ surreale nella hall dell’Allianz Tower, il più alto grattacielo d’Italia.
Attualmente una Bucida può costare più di un’auto elettrica. Una primadonna, sempre al centro dei riflettori. E allora, cosa ci fa in rianimazione?
I can’t exist, I can’t survive
I can’t stay alive without your love
Don’t leave me this way
Una storia tipica. Per una serie di motivi (terminata la performance, cambio di allestimento, nuova collezione e nuovo lay out…) un bel giorno la Bucida finisce in qualche deposito, insieme ai divani e agli arredi. Essendo una pianta dei Caraibi, che ha nella linfa il sole della Florida, gli aromi delle Antille, i ritmi della Giamaica e il vento caldo delle Bahamas, ritrovandosi in solitudine, in un magazzino freddo e buio, cos’altro può fare se non lasciarsi morire?
A questo punto arriva Heidegger, nei panni del nostro manutentore.
Cosa ci insegna Heidegger? Che vivere significa esser-ci (da-sein), essere qui, avere cura del mondo, dell’altro, di sé stessi. La cura è il primo e unico senso dell’esistenza. Esserci. E il nostro manutentore-Heidegger c’è. Chiede: dov’è finita la Bucida? La va a prendere più morta che viva e la riporta in serra.
Luce, calore, piante, parole, musica, acqua, vita. Vicino a lei due Philodendri convalescenti la incoraggiano. Come dice il loro nome (dal greco Filos, amico, e Dendros, albero) sono amici degli altri alberi, ci si arrampicano per avere più luce o come ritenevano gli antichi per portare agli Dei le suppliche degli uomini.
Oh, as long as I know how to love,
I know I’ll stay alive
I will survive
Tutto qui. Dimenticata in un magazzino, la Bucida sussurrava “non posso sopravvivere, non posso rimanere in vita, senza il tuo amore”. Recuperata, riportata nel mondo della vita, miracolosamente si riprende, dai rami secchi spuntano foglioline verdi e grida al mondo “finché saprò amare, so che resterò viva!”.
Abbiamo ancora tutta la vita, tutto l’amore del mondo da offrire. Per questo vale la pena vivere, curarsi e sopravvivere. È la lezione della nostra Bucida.
I’ve got all my life to live
I’ve got all my love to give
I will survive
Testi:
Leone Belotti
Illustrazioni:
Alessandra Corti
Fonti e riferimenti:
Martin Heidegger, Essere e tempo, 1927
Don’t leave me this way, Harold Melvin, 1975
I will survive, Gloria Gaynor, 1978