Nel paese dei tropici
Certi giorni, in certe ore, le piante della serra con la loro presenza e i loro aromi, o forse con la loro nostalgia, ti fanno sentire nella foresta amazzonica.
Laggiù nel paese dei tropici
sotto l’ombra di alberi esotici
In quei momenti magici se tra le fronde intravedi le figure o i gesti dei ragazzi che lavorano in serra ti rivelano quello che sono realmente, la loro vera identità di autoctoni, nativi della foresta, che parlano con le piante sfiorandole, annusandole e sapendole toccare come indios. E allora capisci che la serra è una filiale della foresta tropicale. Le nostre talee vengono da lì. Il nostro compito è portare il senso vitale della foresta nelle case, negli uffici, nei luoghi pubblici. Il vero lusso, la biodiversità lussureggiante che viene dalla nostra casa madre, dalle foreste tropicali africane, asiatiche e sudamericane.
gli americani che espatriano
si ritrovano tutti quaggiù
alle spalle una storia impossibile
e un amore che non conta più
Con l’intenzione di proteggere questo patrimonio, la biodiversità, l’ONU ha lanciato l’obiettivo 30/30, cioè trasformare il 30% del pianeta in aree protette entro il 2030. A prima vista sembra un grande progetto. In realtà l’area protetta è un concetto discutibile, spesso inefficace, non di rado dannoso e a volte colonialista.
Si tratta di un’idea americana: dichiarare riserve naturali le terre dei nativi, farne dei musei della natura – peraltro accessibili a turisti e cacciatori paganti oltre che alla ricerca scientifica e nel caso anche alle compagnie minerarie – mentre i nativi diventano lavoro per i servizi sociali delle periferie urbane.
Grandi organizzazioni “ecologiche” internazionali come il WWF sono tra i promotori e gli attori di questo scenario. Non è ben chiaro se e come l’ONU intenda requisire, espropriare, comprare, recintare e controllare questo 30% “selvaggio” del pianeta, quasi per intero situato nei paesi del sud del mondo. Sul piatto, d’altra parte, ci sono 140 miliardi di dollari.
Laggiù nel paese dei tropici
certe volte fa freddo anche là
per un cuore che si è ammalato
nel paese della libertà
Altre organizzazioni come SURVIVAL, che rappresenta i popoli indigeni, combattono il progetto 30/30 denunciandolo come “la grande bugia verde”.
Dati alla mano, i nativi e la loro cultura si sono dimostrati ovunque custodi della natura e della biodiversità più efficienti, ecologici ed economici dei guardaparco e degli scienziati del modello “area protetta”.
Tra i pochi grandi soggetti schierati con gli indigeni c’è la Chiesa cattolica. Monsignor Arellano scrive: “La terra soffre e i popoli originari sanno del dialogo con la terra, sanno che cos’è ascoltare la terra, vedere la terra, toccare la terra. E chi meglio delle Comunità autoctone è capace di ascoltare questo “grido” della terra, proprio a motivo della relazione ancestrale che hanno con la terra? Conoscono l’arte del vivere bene in armonia con la terra”. Eppure l’ideologia dell’area protetta prevede di conservare l’ambiente estromettendo l’elemento umano da sempre parte attiva di questo equilibrio, i nativi, veri custodi e manutentori della foresta. In questo modo si estingue la loro cultura, la loro capacità di tenere viva la foresta.
L’antropologo Bruce Albert ha dedicato decenni di lavoro a “La caduta del cielo”, un libro già oggi considerato pietra miliare dell’antropologia, nel quale sono raccolte le parole e i racconti di Davi Kopenawa, sciamano degli indios Yanomami.
“I nostri antenati conoscono da sempre ciò che adesso i bianchi chiamano ecologia. Prendersi cura della foresta in modo da non perdere la sua fertilità. Così la bellezza della foresta è arrivata a noi”.
“I bianchi hanno già interamente disboscato la loro foresta, ne conservano solo pochi frammenti circondati da recinzioni. Penso che adesso abbiano intenzione di fare lo stesso con la nostra e concederci dei piccoli pezzi sparsi”.
gli americani che espatriano
fanno il verso alla nostalgia
raccontandosi senza crederci
mille volte la stessa bugia
Kopenawa: “Se oggi i bianchi parlano di proteggere la natura non devono mentirci come hanno già fatto i loro anziani”. “Non vogliamo vivere in una foresta a pezzi e diventare esseri umani a pezzi come i bianchi. Loro intendono solo le parole delle merci”.
“Vogliamo vivere in una foresta intera. Noi sciamani diciamo semplicemente che stiamo proteggendo la natura nel suo insieme. Difendiamo gli alberi, le colline, le montagne e i fiumi della foresta; il suo pesce, la selvaggina, gli spiriti e gli abitanti umani. Difendiamo persino la terra dei Bianchi al di là della foresta, e tutti coloro che ci vivono”. “Forse un giorno noi popoli della foresta moriremo tutti, ma se noi scompariremo nemmeno i bianchi vivranno a lungo dopo di noi”. “Il cielo è già caduto in passato. Il dorso del cielo caduto all’inizio dei tempi è diventato la foresta in cui viviamo, per questo chiamiamo la foresta waro patarima mosi, il vecchio cielo”. “Oggi tutti gli esseri che vivono nella foresta temono di essere annientati dalla caduta del cielo”.
e spendono più di una lacrima
su un bicchiere di vino e di rhum
e piangendo gli viene da ridere
ballo anch’io se balli tu
Come cantavano Dalla e De Gregori, è giunto il momento di ballare insieme, capire che siamo tutti nativi, e il cielo crollerà per tutti.
Lo ha capito il Papa: “Seguiamo l’esempio delle comunità autoctone. Custodiamo i popoli indigeni che ogni giorno si impegnano nel custodire la natura!”.
Lo ha capito Yvon Chouinard, il proprietario e fondatore di Patagonia che ha donato tutte le azioni della società a un fondo per la tutela ambientale, e a chi gli ha chiesto perché l’abbia fatto ha risposto: «la Terra è il nostro unico azionista».
Lo ha capito perfino la nostra Yucca che pensava di essere un guardaparco, ma a un cenno dello sciamano Hydrowami ha abbassato le spine.
Testi:
Leone Belotti
Illustrazioni:
Alessandra Corti
Fonti e riferimenti:
L. Dalla e F. De Gregori, Laggiù nel paese dei tropici, 1979.
D. Kopenawa e B. Albert, La cadute del cielo, 2010.
F. Arellano, “I popoli indigeni custodi della natura”, 2019.